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Carlo Bo, decano della nostra critica
letteraria, cattolicissimo, senatore a vita dal 1982, è morto ieri a
novant’anni, dopo una vita spesa al servizio della letteratura. Docente
di lingua e letteratura francese all’Università d’Urbino dal 1938,
poi rettore della stessa università, Bo aveva esordito sulla rivista “Frontespizio”
con il saggio Letteratura e vita, considerato il manifesto della
cosiddetta “critica ermetica”, che si proponeva in soldoni una lettura
diretta delle opere, per catturarne il senso e lo spirito senza le
mediazioni e gl’impacci della storia e della filologia. Bo, che si
sarebbe occupato a fondo di poesia e di letteratura italiana, per esempio
di Leopardi e di Serra, cui dedicò due notevoli monografie
rispettivamente nel 1964 e nel 1967, nei suoi primi anni d’attività
scrisse opere importanti soprattutto sulla letteratura francese, in
particolare su Jacques Rivière e Sainte-Beuve, sul surrealismo e
Mallarmé. Scrisse libri corposi sulla religione e sulla frenesia di
leggere libri. Curò memorabili rubriche letterarie sui giornali italiani
di rispetto. Un personaggio da romanzo, Sandro Pertini, lo fece senatore a
vita nel 1982.
Che cosa fosse la critica letteraria per gli specialisti e i “grandi lettori” della sua generazione è cosa che oggi è difficile spiegare. Era una disciplina rigorosa e una specie di milizia. Un’opera letteraria, agli occhi di Bo e dei suoi colleghi, era una pentola piena d’oro in fondo all’arcobaleno e la critica letteraria era la mappa di questo tesoro: niente mappa, niente tesoro. Per capirci diciamo che oggi nessuno, nell’università o nei giornali, si chiederebbe se sia “lecito” oppure no “parlare di surrealismo” a proposito dell’opera d’Achille Campanile, come faceva Carlo Bo nella sua introduzione al Manuale di conversazione, uno degli ultimi libri pubblicati dal grande umorista. Oggi un critico ne parlerebbe senz’altro, o non ne parlerebbe affatto, secondo l’estro e l’occasione, ma l’idea di chiedersi se farlo o non farlo sia “lecito” (come se ne dipendesse qualcosa d’essenziale, insieme la borsa e la vita della verità letteraria e anzi della verità punto e basta) probabilmente non lo sfiorerebbe neppure. Per quelli come Bo “lecito” era una parola piena e un libro era un libro: non l’involucro di un’esperienza estetica usa-e-getta, tantomeno un oggetto di consumo, come si direbbe oggi con espressione moscia, ma il Santissimo di un’esperienza spirituale, una chiave ermetica, una finestra spalancata sui misteri della condizione umana. Niente era così capitale come lo svelamento di questo mistero. Era tutto lì. Non c’era differenza tra la vita e la sua ombra letteraria. Ogni generazione, del resto, ha i libri e le letture critiche che si merita. Oggi la letteratura vola basso, non solo quella moderna ma anche quella classica, a sua volta vittima delle letture disincantate della modernità. Per lo più la letteratura è un giocattolo che la critica alta s’ingegna dispettosamente di smontare. Non c’è più innocenza: le opere sono smagate e distratte, idem lo specchio critico che le riflette. Forse la critica letteraria sobriamente intesa e devotamente praticata è ormai definitivamente invecchiata e fuori corso. Forse è roba d’un altro secolo, il ricordo d’un ricordo, che rimanda ad altre opere, ad altri giorni. Ma è difficile non rimpiangere l’eterna giovinezza di questi magnifici lettori di libri, che come Carlo Bo potevano dedicare studi severi e intransigenti non soltanto ai libri che amavano ma all’arte stessa di leggere e d’interrogare i libri, come se parlare con i libri fosse una specie di cabala, uno dei modi di parlare con Dio.
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