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Gli 80 anni di Marlon Brando 


Marlon Brando sul set di Ultimo tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci, con Romy Schneieder

Marlon Brando - Galleria

 Articolo di Valerio Caprara tratto da Il Mattino  www.ilmattino.it
  
Un cupo, oscuro finale per una storia radiosa. Metafora del destino umano, il percorso di Marlon Brando procede come in surplace sul letto di una villa supermunita di Los Angeles, dove il corpo vegeta bruciando gli ultimi scampoli del mito. A pensarci bene non poteva che finire così colui che ha incarnato come nessun altro l'illusione e la magia della finzione, che ha scolpito un cinema ancora e sempre bigger than life, più grande della vita, che ha fatto dell'ossessivo massimalismo un'incredibile metafora di fascinazione. Grazie a lui, in effetti, si dissolse per la prima volta a Hollywood la schizofrenia del «sembrare ed essere»: emerso dalle profondità di un dramma esistenziale, di una sofferenza psicologica, di un'esuberante animalità, Brando divenne talmente tutt'uno con il proprio carisma da non riuscire più a distinguere la verità dall'invenzione. Le sue non sono state soltanto interpretazioni potenti o riuscite, ma il riflesso di un reciproco scambio con l'effimera essenza personificata e rappresentata sullo schermo.
Il corpo di Brando si è trasformato, sin dalla prima apparizione, nel linguaggio attraverso cui comunicare con intere generazioni di spettatori: da quello umiliato e offeso del reduce in «Uomini» a quello sensuale e scandaloso di Kowalski in «Un tram che si chiama desiderio»; da quello ambiguo e tormentato di Marc'Antonio in «Giulio Cesare» a quello violento e inibito del motociclista ne «Il selvaggio»; da quello eroico e autolesionistico dello scaricatore in «Fronte del porto» a quello inflessibile e coraggioso del tutore della legge ne «La caccia»; da quello nevrotico e impotente del maggiore Penderton in «Riflessi in un occhio d'oro» a quello solitario e maledetto di Vito Corleone ne «Il padrino»; da quello sformato e dissipato di Paul in «Ultimo tango a Parigi» a quello solitario e minaccioso del colonnello Kurtz in «Apocalypse Now». Quel lessico squisito e stratificato sta per esaurirsi, ma nessuno potrà impedire che si tramandino i «significati» del ribellismo senza causa, dell'anticonformismo costituzionale, della profonda inquietudine, dell'inclinazione per i gesti iconoclasti e lo sberleffo dissacrante dell'uomo che volle farsi attore.

 
 
 
 
 
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