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da Il Giornale

I MIEI SESSANT’ANNI SUI SET ITALIANI

Siamo grandi se narriamo il nostro villaggio. La Loren è diventata una diva mondiale restando napoletana. 
Oggi mancano i produttori visionari come Fellini.
 

 

Ho compiuto di recente i miei sessanta anni di cinema avendo iniziato nel 1943 come soggettista, con Ivo Perilli, di “Due lettere anonime” di Mario Camerini, il primo film sulla resistenza metropolitana, coetaneo di “Roma città aperta”.

L’anniversario avrebbe scarsissimo interesse se l’aver partecipato a circa cento opere, ora da sceneggiatore e da regista e ora soprattutto da produttore non mi desse la possibilità di ritenermi testimone diretto di quella stagione che qualcuno definì la grande avventura del cinema italiano.Ho assistito, soffrendone, alle cicliche crisi della produzione nazionale, ma anche alle resurrezioni che ad essa restituivano puntualmente forza e valore.

Mario Camerini

 

Devo ammettere che oggi la resurrezione si fa aspettare, non tanto per mancanza di film in grado di restituirci il perduto prestigio, ma perché il cinema italiano è statisticamente inesistente nel suo complesso: ad alcuni successi eccezionali corrisponde un’ecatombe di opere che non recuperano neppure il costo delle copie o che addirittura non trovano una sala che le ospiti.

Ha concorso a tanto una produzione artatamente inflazionata a causa di compiacenti e indiscriminati finanziamenti governativi che hanno consentito velleitarismi dilettantismi e illusioni di registi improvvisati.

Un tempo era richiesta una severa selezione attraverso apprendistati e tirocini esercitati anche nella realizzazione di documentari, numerosi perché godevano di un rientro erariale proporzionale all’incasso del film a cui ciascuno di essi era abbinato.

Anna Magnani e Roberto Rossellini

 Vi si formarono autori e registi che successivamente diventarono famosi. Io stesso ricordo che all’inizio degli Anni Cinquanta, producendo “Processo alla città” di Zampa, “I vinti” di Antonioni e due episodi de “I sette peccati capitali” di Rossellini e di Eduardo conobbi come... ragazzi di bottega Francesco Rosi, Mauro Bolognini, Nanni Loy ed altri, aiuti o addirittura assistenti alla regia. Un’altra causa che impedisce al nostro cinema il recupero di una sua precisa identità è da attribuirsi alla scomparsa della figura del produttore.

Questi non era necessariamente, come è opinione diffusa, il finanziatore del film, bensì l’autore e il realizzatore di iniziative e di progetti propri o di altri, il quale offriva a registi, scrittori e tecnici l’occasione per esprimersi possibilmente al meglio. Sebbene non sempre finanziatore, egli tuttavia si assumeva la responsabilità dell’opera e partecipava in proprio ad eventuali perdite. Questo sistema faceva perciò di lui un giocatore, dotato spesso di intuito o di fiuto che lo coinvolgevano nel fascino del rischio - calcolato però perché tutti i film potevano contare, in genere, su un incasso medio.

Furono dunque i produttori insieme con i registi, talvolta anche senza questi, gli artefici di un cinema riconoscibile per stili e validità spesso anche artistica.

 

Si distinsero, oltre ai grandi personaggi come i Ponti, i De Laurentiis, i Lombardo, i Cristaldi, anche i Misiano, i Manenti, incolti ma intelligenti. Spiccava tra questi ultimi Peppino Amato celebre per la sua pittoresca ignoranza surrogata da una genialità fuori dal comune.

I rapporti tra il produttore e il regista non erano sempre idilliaci, erano anzi caratterizzati da una conflittualità ora ideologica ora economica; ma dal confronto dialettico nasceva di frequente una vitalità che dava anima ai film.

 

Vittorio de Sica, Roberto Rossellini e Fedrico Fellini

Ricordo le discussioni vivaci che io stesso ebbi con Pietrangeli per “Io la conoscevo bene”, con Antonioni per “I vinti”, con Dino Risi per “Operazione San Gennaro”, con Brusati per “Pane e cioccolata”, con Magni per “Scipione detto anche l’Africano”, con Salerno per “Anonimo Veneziano” e l’elenco potrebbe anche continuare.  Debbo ancora oggi riconoscere che quelle polemiche non danneggiarono la qualità delle opere, presumo anzi che vi contribuirono.

Con Fellini per “Roma” il confronto fu impossibile nel senso che Federico mi dava sempre ragione, salvo poi nel corso delle riprese a fare, fortunatamente, di testa sua e secondo la ispirazione del momento. Egli appartenne alla triade dei Bugiardi insieme con Rossellini e De Sica che fecero grande il nostro cinema. Non è del resto il cinema stesso una menzogna meravigliosa, una finzione?  Il neorealismo, a parte la sua poetica autonoma, influenzò variamente tutta la produzione italiana successiva: nella scelta degli attori a prescindere dalla professionalità, nel preferire interni dal vero a ricostruzioni in teatro, nella tecnica delle riprese e così via. Nei contenuti si sviluppò un interesse a temi sociali e di costume, fino a dar vita a un cinema impegnato politicamente e a vere e proprie denunce che tuttavia la magistratura non raccolse per prevenire e per reprimere la dilagante corruzione ambientale. (Si dovette aspettare un cambiamento della classe politica al potere perché la giustizia si risvegliasse, trasformandosi in alcuni casi in giustizialismo.

 

Un’altra esperienza da riferire è quella a proposito delle coproduzioni a cui concorrevano due o più paesi di Europa, Gran Bretagna impenetrabilmente esclusa.

Con Francia, Germania e Spagna realizzammo insieme numerosi film, grazie alle quali io stesso coltivai rapporti con Cayatte, Vadim, Lautner, De Ray, Allegret, Berlanga e altri.

Se dal punto di vista finanziario queste iniziative ebbero indubbi vantaggi, dal punto di vista produttivo e anche artistico esse rivelarono l’inesistenza di un linguaggio europeo comune: ogni film ebbe in genere successo solo nel paese che vi aveva partecipato in quota maggioritaria. Vale anche la pena di segnalare che negli Anni Sessanta tentammo di forzare l’accesso al mercato statunitense che ai film stranieri ha riservato e riserva, nel migliore dei casi, il circuito ridotto degli art-theatres. Fu così che prendemmo l’abitudine di girare film in inglese, anche con la partecipazione di attori hollywoodiani (talvolta di quelli avviati al viale del tramonto...); ma il risultato fu disastroso.

Non avevamo tenuto conto infatti che il pubblico americano accetta solo la presa in diretta dei dialoghi mentre i nostri film, recitati in un inglese un po’ approssimativo dagli interpreti italiani e chiaramente tradotto da quelli americani, erano doppiati dopo le riprese e perciò sgraditi agli spettatori di oltreoceano attenti ai più rigorosi sincronismi. L’unico vantaggio che ne avemmo, fu un incremento delle vendite in Estremo

Oriente e in America Latina dove ai film doppiati a Madrid in castigliano si preferiscono quelli parlati in inglese, anche male, ma con i sottotitoli spagnoli.

Una certa fortuna toccò tuttavia ai western all’italiana, non per tutti pari a quelli di ottima fattura e di successo internazionale di Sergio Leone, ma redditizia per le vendite all’estero. Ricordo di essere stato uno dei primi a produrre, contemporaneamente a “Per un pugno di dollari”, un western, di cui non vergognarmi, diretto dall’ottimo Sergio Corbucci: “Minnesota Clay”, storia di un pistolero cieco che sparava ai rumori.

Un nostro genere inoltre che inaspettatamente attecchì in America, sempre negli Anni Sessanta, fu quello “mitologico” - degli Ercoli, dei Macisti, dei Sansoni per intenderci. Quei film - in USA battezzati - celavano un’importanza superiore alla loro apparenza: anticipavano il ritorno dei grandi film storici; anticipavano gli effetti speciali, ottenendoli con geniali mezzi artigianali, quali per esempio quelli di paesaggi favolosi di illusorio effetto dipinti su cristalli; anticipavano i film di massa, riuscendo a trasformare un manipolo di comparse in un imponente esercito di guerrieri a piedi e a cavallo...

 
Ai film, le cui sceneggiature cominciavano spesso con la didascalia Olimpo Esterno giorno, non ebbi occasione di partecipare; mi considero invece il primo produttore italiano del genere fantascientifico, avendo realizzato nel 1960 “Space men” e l’anno dopo “Il pianeta degli uomini spenti” con Claude Rains, che ebbe notevole successo in America dove ancora qualche anno fa lo vidi trasmesso da televisioni regionali.

Il fascino di queste due opere si deve alla genialità straordinaria di Antonio Margheriti, conosciuto con lo pseudonimo di Anthony Dawson, il quale anticipò artigianalmente i più suggestivi effetti speciali in seguito ottenuti elettronicamente. A lui, scomparso di recente, e ai suoi film vengono dedicati in più paesi del mondo festival e rassegne.

Frugando nella scarsella dei ricordi, la lezione talvolta inascoltata che ne emerge è che il cinema italiano per essere grande deve avere il coraggio di essere se stesso, di raccontare cioè il nostro villaggio, in cui, come in quello di Tolstoj, si riflette il mondo. Nel 1963, insieme con Cristaldi e Gualino, fui associato in uno dei tentativi di penetrare nel pianeta America; due film erano stati girati in inglese: “Gli indifferenti” di Maselli, con Rod Steiger, Paulette Goddard, Claudia Cardinale, e “La ragazza di Bube” di Comencini con Claudia Cardinale e Georges Chakiris reduce dal trionfale successo di “West side story”; ma essi ebbero in Usa un esito piuttosto deludente. Un apprezzamento molto maggiore ricevette invece il terzo film che faceva parte del pacchetto: “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi con una straordinaria Stefania  Sandrelli, girato a Sciacca e in siciliano! I maggiori nostri successi nel mondo sono stati del resto i film inconfondibilmente italiani, addirittura regionali.

Stefania Sandrelli e Pietro Germi sul set del film "Sedotta e abbandonata"

 

 

Sophia Loren

Non a caso la nostra attrice più internazionale è stata ed è Sophia Loren rimasta comunque e sempre napoletana.

E ora: cinema addio! Nel senso che niente sarà più come prima. Anche il cinema italiano dovrà adeguarsi agli effetti della grande rivoluzione tecnologica caratterizzata dal passaggio dalla pellicola chimica al digitale che consente di creare immagini esistenti solo nella fantasia dell’autore emblematicamente inteso. Anche il cinema italiano dovrà partecipare alla rivincita di Méliès su Lumière , al prevalere dell’immaginario sul documentario, senza tuttavia perdere la sua identità. Fellini e Antonioni sono stati ciascuno a proprio modo i pionieri; Benigni ne è l’attuale interprete.

Turi Vasile

Roberto Benigni

 

I FILM DI TURI VASILE IN CINQUANT'ANNI DI PRODUZIONE